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L'inverno dentro, Missing moment-Hiu Mei [NC17]

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Valpur
view post Posted on 8/6/2009, 19:53




Titolo:L'inverno dentro
Autore:Valpur
Genere:Drammatico, introspettivo
Rating:NC17
Tipologia: One-Shot.

Storia prima classificata all'Olympic contest, sia su CoS che su Writers Arena.



****




Mi chiamo Hiu-Mei, sono ch’nin(*).
Sono nella zenana(1*) da sette mesi, o almeno credo. Il tempo scorre in maniera strana qui, a Darsanga(2*), dalle finestre sbarrate e dai focolari sempre spenti.
Ho diciassette anni e sono una schiava. La favorita del mahrkagir.
Avevo una famiglia, una volta. Mia madre, dai piedi piccoli e dal passo silenzioso, e mio padre, lucidi baffi neri attorno a un sorriso quieto.
Sono morti, massacrati dai mongoli durante una delle loro incursioni. Hanno rotto il cranio di mio padre come se fosse una noce, spargendo sangue e cervella sulle pietre del vialetto; mia madre è stata trafitta dal manico di una lancia… l’hanno spinta tanto a fondo tra le sue cosce da lacerarle il ventre.
Sono morti, io li invidio.
Io, che sono stata portata via su un carro che puzzava di pecora, rannicchiata tra il bottino sottratto alla mia stessa casa –occhi sporgenti di un cane di giada che mi fissavano muti- solo per essere venduta come una giumenta.
Li invidio perché loro non hanno conosciuto il tocco delle ruvide mani barbare che mi sfioravano nelle rozze yurte di pelli mal conciate; li invidio perché un capo mongolo non ha mai aperto la gola dell’uomo che, dopo avermi allargato le gambe, premeva contro di me, cercando di penetrarmi. Si sa, la verginità viene pagata bene.
La mia famiglia non ha mai vissuto tutto questo.
Sono morti liberi. Io sono viva, un oggetto nelle mani di un tiranno perverso.
Il mercato degli schiavi dove sono stata venduta emanava un forte odore di escrementi e carne morta; c’erano cani che ringhiavano, contendendosi un osso spolpato. Non so a chi o cosa fosse appartenuto.
I signori delle steppe mi tirarono giù dal carro, consegnandomi a un uomo dalla pelle color mattone, vestito con sfarzo, sporco e unto.
Mi scambiarono per qualche moneta d’oro.
Nemmeno allora provai niente. Mi sembrava che il dolore e la paura appartenessero a un racconto di cattivo gusto letto anni prima. Da settimane, ormai, riuscivo a ricordare solo il freddo, lo sporco, il sapore di latte cagliato e vomito in bocca.
Ero vuota di emozioni e pensieri; credevo sarei lentamente scivolata nell’oblio.
Mi sbagliavo.
Anche se allora non sapevo quasi nulla del Drujan(*) e tanto meno degli Aka-magi appena vidi quell’uomo alto e magro, dagli occhi neri e crudeli, sul capo un elmo di teschio di cinghiale e attorno alla vita un macabro abbraccio di ossa umane… ecco, riscoprii il terrore.
Non capivo una parola della contrattazione. Colui che scoprii più avanti essere un consigliere del mahrkagir mi aprì la bocca e mi controllò i denti; io non reagii, limitandomi a tremare.
Aveva le mani gelide.
Non dissi nulla nemmeno quando aprì il lurido abito che avevo addosso da tanto tempo e mi squadrò con aria critica.
Quando però sentii le sue dita insinuarsi tra le mie cosce, schiudendomi le labbra ed entrando calmo in me, ad accertarsi della mia verginità, iniziai a urlare. Mi dimenai, le rozze corde che mi segavano i polsi. Gridai e cercai di divincolarmi finché un oggetto contundente mi colpì sulla nuca.
Non ricordo nulla del viaggio fino a Darsanga. Solo la desolazione di una terra seminata a sale, morta e grigia.
La zenana non è certo meglio. Lì ci sono le donne, le schiave costrette a soddisfare le voglie dei lombi del Signor Morte.
Nella zenana ci sono rabbia e dolore; nemmeno la nostalgia riesce a germinare in quella stanza buia: se c’è un pensiero felice da qualche parte, Darsanga si affretta a sopprimerlo.
Sono la favorita del markhagir e questo mi rende invisa alle altre povere anime che condividono il mio destino; c’è chi direbbe “Di cosa ti lamenti? Avrai certo i tuoi privilegi!”.
Solo chi non ha mai messo piede nella zenana può pensarla così.
Sono il fantoccio preferito del tiranno; la mia pelle chiara è costellata di lividi e ferite, ma non fanno così male; non se paragonate ai segni delle bruciature all’interno dei genitali, ai tagli, le lacerazioni, i traumi che il Signor Morte si diverte a procurarmi afferrandomi le natiche e allargandole come se fossero due entità separate, non unite tra di loro.
Almeno, credo si diverta. Di sicuro gli dà piacere.
Io non lo conosco; non so nemmeno quale sia il suo nome.
Ma io sono Hiu-Mei, e prego sempre, ogni istante, di riuscire a morire.




Hiu-Mei si strinse le ginocchia al petto; uno dei cuscini di raso consunto del giaciglio scivolò da sotto la sua schiena, lasciandola più scomoda di prima. Tuttavia non si mosse.
Gli occhi a mandorla, attraverso la cortina di capelli neri, si spostarono sull’ampia sala occupata dalle schiave della zenana; dall’altro lato della vasca del tepidarium una donna dalla pelle color cannella aspirava intensamente da una pipa ad acqua, emettendo volute di fumo azzurro. Qua e là gruppi di concubine sussurravano negli idiomi della loro patria, suoni contorti e sconosciuti alle orecchie della giovane ch’nin misti a qualche parola in zenyano che, dopo un mese di permanenza, iniziava a capire.
Sola della sua etnia, Hiu-Mei era forse ancora più sola delle altre. Spinta dall’abitudine di una vita si voltò verso la parete, cercando nella luminosità del sole un indizio per capire se fosse giorno o notte; il suo sguardo incontrò solamente le solite assi consunte a sbarrare una delle finestre. La giovane sospirò rassegnata e tornò ad osservare la stanza.
Le voci erano sommesse, alcune delle schiave erano assopite, pur continuando a trasalire e gemere nel sonno.
Dev’essere ancora notte, pensò.
“Tu non dormi”, disse in zenyano una voce calda.
Hiu-mei sgranò gli occhi e si addossò più strettamente al muro, rannicchiandosi ulteriormente e soffocando a malapena uno strillo. La donna che aveva parlato era alta e dai lineamenti decisi; con un gesto distratto sistemò la cesta che reggeva contro il fianco, sistemando una piega della lunga tunica che indossava. Hiu-Mei non poté non notarne le mani mutilate di mignoli e anulari.
“No. Non… non riesce”, sibilò la ch’nin, la voce arrochita dopo lunghi giorni di silenzio.
“Io”, proseguì l’altra donna indicandosi, “Drucilla. Tu?”
“Hiu-Mei”.
Drucilla si avvicinò di un altro passo; i sandali di cuoio erano consunti e la suola semiscollata sbatacchiava ogni volta che i piedi si poggiavano a terra. La donna tese una mano verso la fronte di Hiu-mei, che gemette, strinse gli occhi e scosse violentemente la testa.
“Sono un medico. Non ti… ti…” Drucilla fece una smorfia, riflettendo. “Non faccio male. Io curo”.
Senza attendere una risposta posò il palmo sul viso di Hiu-mei, pietrificata e terrorizzata a quel tocco, e abbozzò un sorriso.
“Niente febbre. Solo paura, vero?”
Il tono era dolce; Hiu-Mei sentì la tensione abbandonarle il viso e riaprì gli occhi, annuendo.
“Lui non ti ha chiamata ancora”.
La ch’nin inclinò la testa.
“Il Signor Morte. Sei ancora integra”.
Un sospiro, nessuna risposta.
Drucilla, senza chiedere il permesso, sollevò un braccio di Hiu-Mei e lo tastò, soffermandosi sui vecchi segni di lividi in via di guarigione.
Poco distante risuonò una risata aspra e crudele; entrambe le donne si voltarono: nella penombra splendeva il sorriso candido di una donna nera e alta, avvolta in vesti scarlatte.
“Ancora per poco”, disse con voce bassa e fredda. La lunga mano dal palmo rosato si aprì, rivelando tre dadi d’ambra. “Gli dei hanno parlato”.
“Kaneka…” l’ammonì Drucilla.
“Cosa vuol dire?” sussurrò Hiu-Mei. “Chi è?”
Gli occhi di Kaneka erano braci spente in un viso di ebano, seri e disincantati. Il sorriso sparì lentamente dal suo volto, e la donna voltò le spalle alle due.
Drucilla chinò il capo e lo scosse.
“Lei… pensa di sapere cosa accadrà in futuro. I suoi dadi le parlano”.
“È vero?” chiese la ch’nin, la bocca arida. Sussultò leggermente quando le mani del medico le sfiorarono una contusione ancora dolente.
Il sorriso di Drucilla era contorto.
“Non ci vuole molto. Nella zenana, un solo destino: morte”.
Hiu-Mei sentì le lacrime montarle agli occhi. Una parola, troppo violenta per poterla fermare, le rotolò sulla lingua.
“Perché?”
Drucilla alzò lo sguardo, occhi grigi ancora disperatamente vivi nonostante tutto. Le labbra, segnate da leggere rughe d’espressione, si mossero senza un suono. Forse avrebbe dato una risposta, ma il clamore proveniente dalla porta d’ingresso risvegliò all’improvviso l’attenzione di tutta la zenana.
Un cigolio, delle risate, una risposta secca; la grata che chiudeva la zenana si serrò con uno scatto. Due eunuchi akkadiani(*), i severi lineamenti resi di marmo dall’amarezza di un destino indegno per un uomo, si fecero da parte. Tra di loro sfilarono quattro persone.
Un bambino di non più di dieci anni, dagli occhi neri infossati, piangeva silenziosamente mentre barcollava verso l’interno della sala; alle sue spalle una donna pallida, dagli zigomi forti segnati da tagli sanguinanti, lo seguiva in silenzio, le mani tese per sostenerlo. La veste bianca era chiazzata di rosso, laddove i rivoli scarlatti che le scorrevano lungo il collo incontravano la stoffa. Le labbra erano strette in una smorfia impassibile.
Poco dietro veniva un’altra donna, l’abito lacero, il segno di un morso violaceo sul seno sinistro.
Ultima della fila, una fanciulla dalla pelle ambrata, con lunghi e lucidi capelli neri. Bodhistana(*), si trovò a considerare Hiu-Mei, e non più che quindicenne. Vedendola, Drucilla si alzò di scatto. La giovane schiava si appoggiò al muro, guardando la zenana con gli enormi occhi scuri, vacui. Un tremito la scosse mentre una pozza scarlatta si formava sul pavimento lurido. Il sangue colava copioso, scorreva tra le cosce e rendeva scivoloso il terreno.
“Ekta…” sussurrò Drucilla, affranta. La bodhistana alzò la testa, lo sguardo fisso nel vuoto. Si piegò in due in preda a un conato, e vomito e sangue si riversarono ai suoi piedi.
Hiu-mei sentì la testa farsi pesante, la nausea che le stringeva la gola.
“Cinque”, disse la voce di Kaneka, imperiosa. “Ne avete chiamati cinque, ieri. Dov’è Himani?”
Uno degli eunuchi le lanciò uno sguardo rassegnato.
“Morta”.
Mentre Drucilla si affrettava verso la donna nelle condizioni peggiori, Hiu-mei si voltò verso il muro. Il respiro le usciva a scatti, inciampando nei denti che battevano senza sosta. Si strinse le braccia attorno al corpo, distogliendo lo sguardo dai disperati tentativi di Drucilla di tamponare un’emorragia implacabile.
Era solo un altro giorno nella zenana.
Le lacrime iniziarono a scorrere senza freno sul viso di porcellana della ch’nin, ignorate da tutti. A pochi passi da lei, un ragazzo biondo e vigoroso le rivolse una rapida occhiata priva d’interesse prima di tornare a fissare il pavimento.
Hiu-Mei pianse mormorando tra sé preghiere monotone; la cantilena, sottofondo a gemiti e rantoli, la cullò a lungo; alla fine la giovane si addormentò.
Ma il mondo dei sogni, a Darsanga, non esiste; ci sono solo i ricordi, ultime vestigia di una vita dimenticata.
E Hiu-Mei ricordò.



I grilli cantavano nell’aria tiepida della sera. Un vento indeciso sibilava tra le fronde degli aceri del giardino, portando con sé il profumo dei gelsomini in fiore. Piccole onde increspavano la superficie dello stagno, facendo sobbalzare i fiori di loto che galleggiavano sopra a grosse, disinteressate carpe koi.
Le lanterne appese fuori dalla porta oscillavano dolcemente, facendo danzare le ombre. Oltre le mura leggere della casa Hiu-Mei sedeva a terra, insieme alla sua famiglia.
Una domestica discreta scivolava silenziosa attorno al tavolo, servendo piccoli bicchieri di tè verde e di vino di riso.
Hiu-Mei afferrò una ciotola di ceramica verde scura dai riflessi color bronzo; un sorriso accompagnò l’acquolina mentre immergeva le bacchette nel soffice composto di riso dolce e frutta.
Le piaceva, e molto, fin da quando era bambina; ogni volta che gustava il sapore avvolgente e ricco del budino delle otto gemme tornava all’infanzia. Adorava quella sensazione tenera che la faceva sentire indifesa e protetta, coccolata da tutti.
Con abilità sollevò un boccone bianco, posandoselo sulla lingua. Il sapore morbido del riso le carezzò il palato, ma fu solo un istante: subito giunsero il fresco e acidulo dei lichis e il piacere fragrante delle ciliegie.
Era talmente immersa in quel mondo zuccherato che non si accorse che i suoi genitori stavano parlando con lei; fu solo la risata sommessa di sua madre a riportarla alla realtà.
“Quel dolce ti porta via da questo mondo, piccolo fiore”, disse suo padre Hua abbassando il bicchiere di sakè, i baffi che tremolavano in un sorriso.
Hiu-Mei arrossì e ridacchiò, senza smettere di mangiare.
“Lasciatela fare, mio signore”, intervenne sua madre. “Mi fa piacere godermi gli ultimi momenti in cui Hiu-Mei non è altro che la mia bambina!”
Hua socchiuse gli occhi, accondiscendente; Hiu-Mei chinò il capo, l’umore improvvisamente più cupo. Un mese e si sarebbe sposata, lo sapeva da anni. La cosa non la riempiva di gioia, ma era il suo destino, l’unico possibile per una fanciulla di buona famiglia, il solo che avesse mai contemplato.
Le bacchette toccarono infine il fondo della ciotola. Hiu-Mei raccolse l’ultimo chicco di riso mentre la domestica portava un piatto con tre biscotti ripiegati.
I genitori presero i primi due, aprendoli con un leggero schiocco. Hiu-Mei fece altrettanto.
Un foglietto le cadde in grembo. Lo raccolse.
A caratteri minuscoli, accuratamente miniati con pennelli altrettanto piccoli, una frase:
“Non basta un giorno di freddo per gelare un fiume profondo”.
Hiu-Mei aggrottò le sopracciglia.
“Che succede, mia cara?”chiese suo padre. “La fortuna pare non arriderti?”
“Io… no, non saprei. È un messaggio strano…”
“Cosa dice?”domandò sua madre, prendendo il bigliettino e leggendolo ad alta voce.
Hiu-Mei abbassò lo sguardo sul bicchiere di tè ancora fumante; piccole foglie scure vorticavano sulla superficie, spinti dai moti dell’acqua calda. Quel movimento era quasi ipnotico.
“Suvvia, non mi sembra il caso di turbarsi così tanto”, intervenne Hua. “Anzi, è confortante: siamo molto più forti di quanto possiamo pensare, e non basta certo una sola giornata di gelo per uccidere la forza vitale che è in noi. Non trovi?”
Hiu-Mei si scosse e distolse lo sguardo dal tè.
“Sì, avete ragione, padre; tuttavia…”
Sospirò. Una sottile inquietudine le scorse per le vene.
“Cosa c’è? Non ti senti bene?” chiese sua madre chinandosi in avanti; la decorazione floreale della complessa acconciatura oscillò, facendo risaltare i fili grigi nella chioma corvina.
Hiu-mei si sforzò di sorridere.
“No, madre, è tutto a posto; ero solo pensierosa. Non è la frase che ci si aspetta di trovare in un biscotto della fortuna, no?”
Hua si accigliò.
“Mi sembra che tu stia dando troppa importanza a quel proverbio. C’è poco da comprendere”.
“Forse più di quanto pensate, mio signore. Un colpo su una linea di frattura spezza il marmo più resistente. A volte, se il freddo è molto intenso e il fiume placido, il ghiaccio ne raggiunge il cuore” fu la pacata risposta della moglie.
“Andiamo, sono solo dettagli! E quello è solo un biscotto!”
Ma Hiu-Mei rabbrividì.
“Ci sono notti molto fredde nel cuore dell’inverno, e temo che prima o poi anche il fiume della mia vita rimanga preda del gelo”.
“Sei al sicuro, qui con noi, petalo di loto”, le disse Hua rassicurante. “Non c’è nulla da temere”.
La domestica venne a portar via il bollitore e i bicchieri ormai vuoti.
“Va’ a riposare, piccola mia”, disse suo padre. “E tieni lontani questi cattivi pensieri, o gli spiriti dei sogni te li riproporranno anche durante la notte”.
Hiu-mei annuì in silenzio e si alzò obbediente.
“A domani”, sussurrò con un sorriso un po’forzato. Si allontanò in silenzio, ma prima di raggiungere la porta della sua stanza sentì la voce di suo padre levarsi nell’aria. Senza riflettere ripercorse i suoi passi, restando a una certa distanza dalla sala da pranzo.
“… cose da non dire. Nuvole si addensano sulla nostra società, non approvo che tu instilli l’ansia nella mia unica figlia a poco dalle sue nozze!”
“Mio signore, capisco la vostra posizione, ma si trattava di un discorso fine a se stesso; voi stesso avete detto che era solo un biscotto”.
Hiu-Mei sentì dei passi leggeri e si nascose nell’ombra; la domestica le scivolò vicina, senza notarla. Udì lo sbuffo di Hua e un movimento.
“E comunque, marito mio, sapete che ho ragione. Solitamente non basta un colpo per abbattere un grande albero, ma quel singolo taglio potrebbe ucciderlo e farlo crollare. Pensateci”.
Hiu-Mei scosse la testa, allontanandosi prima di essere scoperta.
Si ritirò nella sua stanza; prima di chiudere gli occhi scorse il soffitto della sua camera e si sentì più tranquilla.


Hiu-Mei si destò; il sogno era stato così vivido che per un istante si aspettò di vedere le mura rimpiante della sua casa. Davanti ai suoi occhi si dispiegava soltanto la monotona tragedia della zenana, ora in fermento.
Rassegnata si guardò intorno; Ekta, la donna tornata poco prima –ma era davvero passato così poco?- non si vedeva da nessuna parte; i visi delle sue compagne bodhistane erano tirati e pieni di dolore, e Hiu-Mei dedusse che fosse morta.
Si appoggiò alla parete cercando di passarsi le dita tra i capelli aggrovigliati; quasi in risposta a quel suo patetico tentativo, un giovane eunuco le si avvicinò con una bacinella. Non le rivolse la parola né la salutò, così Hiu-mei si limitò ad annuire.
Ci volle tempo e molta pazienza per ridare alla chioma il consueto aspetto ordinato, ma in qualche modo la ch’nin riuscì ad acconciare le ciocche in maniera dignitosa, fermandole con dei pettinini.
Stava ancora sistemando l’acconciatura quando la grata dell’ingresso cigolò nuovamente.
La zenana tacque. La paura si sparse come acqua, scendendo viscosa sui visi pallidi o ambrati, sugli occhi cerulei o neri come il carbone, sulle membra ferite e tremanti.
Hiu-mei sprofondò tra i cuscini, sperando di rendersi invisibile.
Al suo fianco il giovane biondo strinse i pugni e digrignò i denti.
Era già sera, evidentemente, e il grasso capo-eunuco Nariman, seguito da un paio di guardie drujane, entrò.
Sul viso flaccido e pesantemente truccato non passò alcuna compassione quando tese una mano verso la zenana. Il dito tozzo indicò la chowati(*) sfregiata del giorno prima, una bambina imbambolata dai riccioli bruni e una florida donna bionda.
Il braccio si spostò, e la metà della sala non più compresa in quel gesto trasse un corale sospiro di sollievo, interrotto solo dai singhiozzi delle prescelte.
Nariman scelse il ragazzo dai capelli chiari; questi non si limitò a raggiungere il gruppo già formato: rimase immobile, i muscoli definiti delle braccia tesi e pronti a scattare. Ci vollero tre eunuchi per agguantarlo e trascinarlo via, accompagnato dalla risata chioccia del capo-eunuco.
Hiu-Mei chiuse gli occhi e se li coprì con le mani. L’angoscia le premeva all’altezza della bocca dello stomaco, più intensa degli altri giorni.
“Non basta un giorno di freddo per gelare un fiume profondo”.
Un brivido la scosse. Uno spiffero gelido passò da sotto le assi che sbarravano la grande finestra, penetrandole nelle ossa e trasformandole in ghiaccio.
“Tu”, disse la voce di Nariman. “Ch’nin. Alzati. Lo shahryar mahrkagir ti ha mandata a chiamare”.
Hiu-Mei alzò di scatto il viso, senza lacrime, tremante.
Un passo dopo l’altro, i piedi pesanti, raggiunse la porta; le due donne erano silenziose e rassegnate, la bimba sembrava non capire assolutamente nulla di ciò che le stava accadendo. Solo il ragazzo biondo, trattenuto da due robusti eunuchi, continuava a divincolarsi senza speranze; alla fine l’elsa di un pugnale lo colpì violentemente alla nuca, facendogli perdere i sensi.
Hiu-Mei, ingobbita per riparasi da qualcosa che ancora non conosceva, si fermò davanti a Nariman. La mano sudaticcia del capo-eunuco le afferrò il viso, sorridendo in modo sgradevole.
“Ti adorerà, vedrai”.
In quel momento il ghiaccio si avvicinò al cuore di Hiu-Mei, e lei seppe di essere all’inferno.
Gli schiavi si misero in fila, circondati dalle guardie.
Con un tonfo, Nariman chiuse la porta.
“Andiamo”, disse, conducendoli nel cuore di Darsanga, dritti nella bocca del Signor Morte.


 
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